Antonio Catalano non fa teatro, è teatro.
Antonio ha vissuto tutte le trasformazioni della “forma-teatro” degli ultimi cinquant’anni, osservandone le evoluzioni e trovando una poetica personalissima e molto riconoscibile. Autore e attore, certamente, ma solo dopo il suo essere pittore, scultore, falegname,…
Un vulcanico pensatore di mondi che, come in “Jack e il fagiolo magico”, si fondano nel solco del reale e si rafforzano in quello dell’immaginazione. Il suo è un teatro nello spazio del quotidiano che diventa un continuo gioco di forme, colori e materiali: Catalano suggerisce elementi sensibili e libera il suo pubblico da quella che normalmente è una semplice visione dello spettacolo per condurlo alla creazione di spettacolo totalmente personalizzato.
Tra poco uscirà il suo libro “Pedagogia povera o della meraviglia” e sarà sicuramente un’occasione per spiegazzare il nostro inamidato sguardo e trovare un sentiero segnato da briciole di riflessione.
Antonio, parlami di te…
(ride, nda) È difficile! Arrivo dal teatro di strada degli anni ’70 e ho fatto tutto il percorso di prosa, avanguardia e infanzia fino a ripensare al teatro dell’incontro, quello rurale, contadino dove si sta senza orpelli, senza luci, senza niente. Un ritorno alle origini. Mi occupo di molte cose come pittura, scultura, installazioni e mi piace molto la parola “artigiano” perché ha in sé l’idea delle mani, del fare con le mani. A volte il pensiero e la spiritualità che abbiamo si traduce nelle mani, che hanno esperienza diretta con la materia, e queste trasferiscono al mondo la spiritualità poetica che ci appartiene, il sapere. Attraverso le mani, nell’artigiano non c’è lo scollamento tra il pensiero e ciò che fa. Ma, a differenza dell’artigiano, io sorpasso il progetto, non lo faccio, per me l’idea deve seguire le cose della vita, dev’essere un realizzarsi immediato che mi rappresenta in quel momento, altrimenti rischia di essere altro da me… Sono un impulsivo!
Sei il cantore degli “universi sensibili”. Cosa sono?
La mia idea è quella di fare da ponte tra la quotidianità e la creatività, ottenendo una nuova visione della quotidianità. Purtroppo questa epoca è una dittatura della realtà, ma abbiamo bisogno anche di persone con la testa tra le nuvole, distratte alla realtà, ma attentissime ai mondi invisibili, agli universi paralleli. A differenza dello scienziato, chi ha l’immaginazione non dev’essere obbligato a dare le prove. L’azione dell’artista deve elogiare le piccole cose perché, come diceva Rodari, “le cose di ogni giorno nascondono segreti per chi le sa guardare ed ascoltare”. E la creatività è proprio la rivelazione di quei segreti e non si discosta dal guardare la quotidianità. Io distinguo tra fantasia e immaginazione: la fantasia tende a trasformare ciò che hai davanti, mentre l’immaginazione vede in anticipo ciò che può essere. L’immaginazione si colloca in una sfera magica, è quella che viene chiamata ispirazione… è un modo di vedere le cose, è uno stato, è capire che nel piccolo esiste l’infinito, esistono gli universi. L’artista, per istinto sensibile, sa che esistono quegli universi e canta questa bellezza. Dopotutto, anche la vita della formica senza il canto di quella famosa cicala non sarebbe diventata una favola così bella!
Il tuo è teatro senza il teatro, fuori dal luogo-teatro. In questo periodo, dove quest’ultimo è proibito, come ripensi alla forma teatrale?
In questo momento c’è sofferenza perché il mio lavoro è sempre legato all’incontro, manca la fisicità, il contatto occhio-occhio. Ho lavorato tanto sul palcoscenico, ma da molto mi ribello alla sua idea e sono uscito, trovando la mia via in un’espressione scevra di orpelli, che non è dimostrazione di talento, ma stare lì… io sono considerato un artista di “art brut”, arte povera e necessaria, fatta con le mani.
Ecco che ragiono a come si può utilizzare questa lingua nuova, obbligata, del video teatro… vorrei ripulirlo dagli artifici e farne un esempio di art brut. Ma una cosa fatta bene, bella, di qualità, una specie di “Albero azzurro” on line…
Certo che anche questa mancanza può essere un luogo poetico dove si può partire e ripensare… sto ragionando, vorrei trovare una strada nuova per manifestare il mio pensiero, ma senza sfuggire alla bellezza!
Nel tuo percorso tu abbracci gli antipodi: luogo/non luogo, realtà/fantasia, incontro/abbandono. È come se la tua poetica si nutrisse costantemente del doppio, se combattesse tra due forze opposte…
Probabilmente sì. Essere in perenne contraddizione è un po’ l’essenza stessa dell’universo, in costante equilibrio tra forza centripeta e forza centrifuga. Due forze in apparenza conflittuali che però sono parte di un unico pensiero, non sono discordanti. Quando penso alle mie cose, queste due forze mi appartengono e molte volte sono in grado di equilibrarle, pensarle insieme. Non penso le cose separatamente. Come nella musica jazz dove certi accordi sono dissonanti con altri, non andrebbero bene in nessun altro modo, ma lì ci stanno bene lo stesso. Anche in pittura, le avanguardie spesso accostano contrasti assoluti andando contro la morbidezza e la compiacenza per trovare una nuova armonia, un nuovo movimento d’animo. Picasso sosteneva che Chagall abitasse un sogno… il sogno è l’incantesimo del sonno e forse noi dovremmo proprio dar voce a quel sogno e poi tramutarlo in reale pensando a come la vita possa essere anche diversa da quello che stiamo attraversando. Pensare che i nostri incontri hanno un fondo di sacralità. Adesso voglio essere sempre più attento alla dimensione dell’incontro perché nulla è casuale.
Chi sono i tuoi “piccoli” spettatori?
Io non faccio differenze tra le sfere della vita, non penso ci sia una lingua precisa. Penso che esista la sensibilità. Jacques Brel diceva che non è importante diventare adulti, ma diventare grandi. E “grande” lo lego molto all’infanzia perché è come se fosse una civiltà parallela, è un modo di guardare il mondo e le sue cose. I bambini hanno uno sguardo trasversale sulle cose ed è una ricchezza che noi dobbiamo tenerci anche quando invecchiamo. Io ho settant’anni e nel mio modo di pensare non nego nessuna stagione della mia vita. Non voglio rinunciare neanche ad un pezzo della mia vita. L’infanzia è il luogo dello stupore, dello sguardo sul mondo. Noi la chiamiamo ingenuità, ma secondo me è magia perché i bimbi hanno un contatto molto stretto tra occhi e anima, non hanno ragione, sono presi dall’irragionevole, dall’irrazionale, dal sogno. Loro guardano l’anima, non l’involucro, non hanno separazione tra l’io e la spiritualità profonda, è tutto un insieme. Non ascoltano mai con le orecchie, ma con tutto il corpo, si alzano, percepiscono, vibrano. I loro ragionamenti ti spostano, sono a metà tra il sogno e la veglia. Come il poeta. Ecco perché sono dei maghi. Poi la dissociazione cresce e anche i meravigliosi disegni che fanno non ci sono più. Paul Klee si chiedeva perché andassero a vedere le sue mostre anziché i disegni delle scuole materne… Aveva ragione, racchiudono tutto e l’arte del Novecento gli deve molto!
Come ci si può mantenere connessi a questa fase?
(ride, nda) È molto difficile, non so… a me dicono che sono connesso per le cose che faccio, ma lo sono come adulto, con le esperienze dell’adulto.
Forse è una sorta di sensibilità che sviluppi lungo la vita, con il rispetto dell’altro, l’ascolto, l’attenzione alla fragilità, qualcosa che va oltre a un pensiero razionale. Quando avevo diciotto-diciannove anni i miei amici mi prendevano in giro dicendo che ero un bambino e ci rimanevo male. Poi ci ho pensato ed è fantastico mantenere la meraviglia delle cose. Una meraviglia che non è contemplazione, no, non è uno scollamento… è il sentirsi al centro della meraviglia stessa. Se non concepissimo la nostra vita come qualcosa di meraviglioso la meraviglia sarebbe una nuova religione in cui non avremo nessun dio, se non noi stessi in mezzo alla sacralità della vita. Forse è questo il senso della vita, il punto da cui ripartire…