Recentemente abbiamo apprezzato a teatro Alessandro Serra, regista teatrale che ha sbalordito pubblico e critica con “Macbettu”, versione rivisitata del capolavoro shakespeariano.
Noi abbiamo assistito al suo “Il Principe Mezzanotte”: una fiaba dai contorni dark che chiama in causa il piccolo pubblico, rendendolo co-protagonista di un viaggio vissuto all’interno di un comò. Qui, in un mondo rimpicciolito, una strega ha in pugno il cuore di un povero principe che non è libero di dar voce a sé stesso e ai suoi sentimenti. Una ragazza in visita al castello, un imbranato servitore-soldatino e un capotreno alquanto cinico, coadiuvati dagli spettatori, lo aiutano ad annientare la strega e ad aprirsi alla compiuta bellezza della vita.
La delicatezza affianca l’umorismo nero, il teatro di persona si unisce a quello d’ombre, il romanticismo dialoga, con leggerezza, insieme alle venature horror.
Alessandro Serra non ha paura di lavorare ibridando stili e innestando tra loro gli opposti per ricavarne una obliqua e affascinante poesia teatrale.
Alessandro, cosa significa essere il regista teatrale delle proprie drammaturgie?
Significa non praticare la professione del regista, ma tentare di elevarsi alla scrittura si scena, cioè a dire alla creazione di opere. Leggere un testo a fondo, rintracciare, aldilà della rappresentazione, la sua essenza, espiantarne l’aura. Nel mio caso non si tratta dell’ossessione di avere il controllo totale di tutto (scenografie, luci, regia, drammaturgia, costumi suoni, musiche…), ma della consapevolezza del fatto che per far vedere l’immagine di un testo occorre che tutti gli elementi partecipino all’atto creativo: si tratta di un coro nell’accezione più alta del termine. La luce ad esempio deve raccontare e veicolare emozioni, così come la parola e, nel farlo, deve scomparire, come del resto l’attore, altrimenti si esce dalla sfera dell’arte e si scade in quella del decoro.
La tua scrittura è rivolta a te oppure è al servizio del pubblico?
Il teatro è anzitutto per il pubblico. Non credo lo si debba servire, ma di certo lo si può intrattenere, educare – condurre fuori – scuotere, inquietare,… ogni mezzo è lecito per mostrare al pubblico la propria immagine speculare. “Videor ut video”, sono visto affinché io veda.
Lo fa dire Shakespeare ad Amleto: scopo della recitazione, sia all’inizio che adesso, era ed è di reggere lo specchio alla natura; di mostrare alla virtù il suo proprio volto, al vizio la sua propria immagine e, alla stessa età e allo stesso corpo, la sua forma e la sua impronta.
Allo stesso tempo le mie scritture sono anche molto personali, in un certo modo poetiche, non posso negare che in scena si proietti anche il mio sguardo interiore, ma c’è un lavoro di distillazione, per cercare le corrispondenze tra il testo e la mia visone del mondo alla ricerca degli archetipi, di ciò che appartiene all’umanità tutta. Ciò che è chiaro in me e in ogni essere umano. Lo stesso vale per il lavoro dell’attore, che è molto più esposto del mio: se un attore piange è semplicemente una persona che piange ma se quel pianto è al contempo il pianto di un individuo e dell’umanità tutta, ecco che allora siamo di fronte a un evento di natura artistica e perciò spirituale. È così che smaschero me stesso e mi espongo attraverso gli attori… tutto ciò, per chi sa guardare, ha un che di purificante. “L’uomo”, scriveva Anton Cechov, “diventerà migliore solo quando gli avremo mostrato com’è”.
Come si abbinano “reale” e “fantastico” nelle tue opere?
Sono sullo stesso piano. Trascendere la realtà significa semplicemente fermarsi ad osservarne le aure. La fotografia mi ha aiutato molto in questo: mi piace camminare per le grandi città e osservare dei piccoli miracoli di luce e umanità che sfuggono agli occhi dei passanti. Ciò accade non perché io possieda chissà quale dono speciale, ma è una sorta di talento che ho allenato con gli anni. L’intento non era certo di natura spirituale quanto piuttosto pura speculazione: cercavo immagini, cercavo foto, cercavo fenomeni luminosi e umani degni d’essere impressionati su una pellicola. La compassione è arrivata con gli anni e oggi la fotocamera la lascio ormai quasi sempre a casa, ciò che vedo mi basta.
Teatro per adulti e teatro ragazzi hanno la stessa ricettività di queste due componenti?
Assolutamente no. I bambini possiedono lo stupore, la capacità di meravigliarsi che avevano i greci e che si è persa nell’epoca presente. I bambini possiedono organi misteriosi che si atrofizzano con l’età adulta. Ma la cosa che più mi addolora è che questa soglia si abbassi sempre di più. Si smette non di credere, ma di vedere il sovrannaturale. In questo senso il teatro e le arti basate sull’illusione restano l’ultima possibilità ancora concessa. “Là dove l’apparenza fisica viene sostituita dalla parvenza”, scrive Pavel Florenskij, “là dove il sembiante del mistero pare mostrarsi, ossia nel gioco di prestigio, si creano condizioni favorevoli a che il mistero getti davvero la maschera, distenda le membra e ci giochi qualche strano tiro approfittando dei nostri ammiccamenti”. Se lo stuzzichiamo, il mistero è ben lieto di venirci incontro e, protetto dall’illusione, di compiere un vero prodigio.
Pensi che confrontarsi con il pubblico dei bambini significhi mettersi in continuo riallineamento con se stessi e in discussione come professionista?
I bambini sono l’unico pubblico veramente popolare. Sono più aperti al mistero e disposti allo stupore, ma son al contempo avidi di “adultità” per cui se un attore inciampa loro ridono poiché si sentono grandi avendo appena imparato a camminare. Al contempo se un personaggio fa le vocine idiote con una voce idiota emettendo frasi volutamente sgrammaticate i bambini ridono poiché hanno appena imparato a parlare e anche in questo caso si sentono adulti. Un meccanismo non dissimile da quello enunciato con forse troppo cinismo da Umberto Eco per descrivere il successo di Mike Bongiorno: le sue gaffe facevano sentire migliori di lui gli spettatori, proprio di quello lì, il famoso re della televisione. Ecco tutto ciò è linguaggio e convenzione, tutto ciò può essere molto meschino e deplorevole, ma se tutto ciò si limita a essere un mezzo per accedere a livelli superiori (come usa fare deliberatamente Shakespeare) allora sì, ne vale certo la pena. Il fatto è che spesso il teatro per bambini si ferma lì. Ma per fortuna il teatro per l’infanzia è anche un contenitore di meraviglie e ci sono artisti veramente immensi, pressoché sconosciuti, perché parlano all’infanzia e non fanno la così detta prosa. Spesso i grandi si rivelano tali quando imparano a parlare a un bambino o a descrivere il sapore di un vino senza autocompiacimento. L’infanzia acumina lo stile.
Ah dimenticavo, le parole cacca e caccola funzionano sempre per riattivare l’attenzione. Perché? Perché non si dice…
Per godere dell’esperienza teatrale pensi che sia necessario essere sempre “presenti” o che sia utile “abbandonarsi”?
È come nella trance: si sprofonda in un’altra dimensione, uno stato alterato della realtà e della percezione della realtà, ma ciò è inammissibile senza la forma e il controllo assoluto della forma, per cui al suono convenuto si deve ritornare perfettamente lucidi. E così la preghiera, la danza, l’estasi e il combattimento, sono pratiche performative fondate sul rispetto assoluto della forma. Il resto è isterismo. C’è una frase di di Marina Cvetaeva che enuncia meglio di mille parole il rapporto tra il reale e il trascendente così come il rapporto tra l’essere presenti e l’abbandonarsi oggetto delle tue domande: “L’anima, che per l’uomo comune è il vertice della spiritualità, per l’essere spirituale è quasi carne”.