Recuperare l’attività del teatroescuola sospesa per l’emergenza senza nuovi pensieri potrebbe essere uno spreco. Non credo che tutto possa semplicemente riprendere senza differenze. Per esperienza, non è così, nemmeno se si è bambini.
Dico per esperienza perché qui in Friuli abbiamo già passato una cosa simile durante il terremoto. L’onda emotiva che accompagna le cose straordinarie ci mette tanto tempo ad abbassare la cresta. Dopo il 6 maggio e dopo il settembre ’76, noi bambini (io avevo 7 anni) abbiamo imparato rapidamente che gli edifici non sono luoghi sicuri perché crollano; a nasconderci sotto i tavoli e poi – solo poi – correre fuori; a geolocalizzare tutti i membri della famiglia dentro e fuori casa, mai servisse di cercare e scavare; a riconoscere i muri portanti e a tenere d’occhio armadi, lampadari, soprammobili, finestre, cornicioni e comignoli; a disporre i bicchieri vicini affinché suonino alla minima scossa; ad ascoltare le sirene dei cani che abbaiano… siamo stati velocissimi. Sapevamo tutto questo già entro il 10 maggio.
E poi ci sono voluti mesi, anni, per dimenticarcene solo un pochino.
Non sappiamo quanto tempo ci vorrà per sostituire il “io sto a casa” con “vado a teatro, fra la gente e ci sto bene”. Soprattutto perché questi bambini, come noi nel ’76, hanno imparato la cosa più scioccante di tutte: gli adulti non ci possono proteggere, né dai terremoti, né dai virus. E questo li spaventa moltissimo.
I teatri sono crollati, non come durante il terremoto; sono crollati da dentro di noi.
La ricostruzione è compito nostro: artisti, programmatori, educatori. Adulti.
Buffo. Il tema del teatroescuola che avevamo immaginato per l’anno scolastico 20/21 era “Ricreazione. Si potrebbe giocare”. Credo vada più che bene come punto di ripartenza.
In questi giorni raccolgo pensieri sparsi per la ricostruzione.
Primo: ricostruire gli immaginari; perché riprogrammare spettacoli come Disconnesso e Mattia e il nonno non significa solo fissare un’altra data? Perché la connessione e la disconnessione offerta dalla tecnologia si è riempita (anche svuotando altro) di altro e perché molti nonni sono scomparsi accompagnanti, con malcelato sollievo sociale, dalla storia “aveva oltre 70 anni ed era pluripatologico”… Le storie vivono nel presente e si nutrono. Dobbiamo fare i conti con il loro processo digestivo.
Secondo noi ci vuole la poesia. “La poesia è autobiografia di tutti. La poesia non è autobiografia di nessuno.” La poesia non subisce il tempo e le emergenze. È come il pan di via degli elfi: leggera e nutriente; anche nelle terre di Mordor sa di casa, come il sale da cucina. Non nasconde il male, anzi lo rende evidente, ma ci dona le parole dense necessarie ad attraversarlo. È il terzo dono della morte, il mantello dell’invisibilità per proteggersi insieme agli altri.
La sfida: il teatro non ha bisogno di edifici, ma di una comunità che si incontra; costruiamoci un teatro dentro di noi; usciamo non dal bosco, ma da casa, insieme. Diventiamo i Pollicini e lasciamo i sassolini bianchi dietro di noi; corriamo con gli stivali delle sette leghe; riportiamo i fratellini nel bosco dove accenderemo il fuoco intorno cui sedersi ad ascoltare e raccontare le storie che tessono la comunità.
I bambini sono il motore che spinge – costringe – la comunità a ripartire. Diamogli la giusta benzina.
Pensare che si tornerà dentro ai teatri, a sederci a meno di un metro da un’altra persona, senza seguire i sassolini bianchi, è quanto meno ingenuo. Forse non è nemmeno il giusto obiettivo per una comunità che già prima non tutta andava a teatro, al museo, in biblioteca, …
Il bisogno di teatro – e di arte – invece sarà intenso e condiviso. Anche solo per raccontarci e farci raccontare come stiamo. Per tutti. Anche per quelli che mai nella vita hanno sottoscritto un abbonamento a teatro. Poi i teatri torneranno a essere muri e sedie rosse e ce ne saranno di più. In Friuli i teatri dal ’76 non solo sono stati ricostruiti subito dopo le case e le chiese, ma sono nati in ogni comunità, anche la più piccola.
E noi?
Mi spiace pensare che forse come adulti noi non siamo preparati a questo ruolo. Quando c’è stato il terremoto io avevo i miei nonni, quelli della generazione del 1910 che “al rombo del cannone” della prima guerra e della spagnola, della tubercolosi e del colera, avevano abbastanza anni per immagazzinare ricordi e comportamenti; quelli che hanno combattuto nella seconda guerra e che poi hanno visto i brillantini degli anni 50. I miei sono arrivati ben oltre il telefonino e il computer, passando per la televisione a colori e lo sbarco sulla Luna.
Mio nonno la sera del 6 maggio 1976, mentre noi cercavamo di scappare fuori nel buio totale, da sotto l’architrave della casa (il posto più sicuro al momento) con voce calma, senza urlare, sovrastando comunque il boato del terremoto ci diceva: State calmi!
Io correvo dietro a mia madre che mi aveva acciuffata per mano e continuava ad urlare a mio fratello “corri, corri, corri” (non era riuscita a prendere anche lui e si sperava fosse avanti a noi giù per le scale! Il posto meno intelligente per passare una scossa di terremoto…). Gli adulti del condominio, urlavano tutti. Urlavano soprattutto a noi bambini di correre fuori.
Ma io ascoltavo mio nonno e il suo cadenzato “State calmi” e mi veniva da ridere. Anche perché era il mio primo terremoto e non mi era chiaro il concetto di crollo…
Finita la scossa, mio nonno si è preoccupato nell’ordine di: recuperare l’uovo sodo che stava mangiando; scendere in cortile dopo aver indossato la vestaglia sopra la camicia (era un signore); ribadire a tutti di stare calmi, che è una scossa di terremoto, non un bombardamento, ed è passata. Mia nonna, ancor più pragmatica, mi disse: son cose che capitano ai vivi; e tu sei ancora viva quindi organizzati di conseguenza.
Nonno e nonna ci hanno organizzato – tutti nel condominio e nell’isolato – nei mesi successivi non solo la vita pratica insegnandoci con una disciplina impagabile a vivere nell’emergenza; da cosa deve sempre esserci in dispensa nel caso mancassero approvvigionamenti (nella mia c’è sempre tuttora una scatola di pelati, una di piselli, un pacco di pasta, il sale, lo zucchero, il caffè e una scatoletta di tonno…), cosa serve in una cassetta di pronto soccorso (disinfettante per l’acqua e le ferite, cerotti, bende, forbicine, pomata per le ustioni e antibiotica, pinzette… tutto il resto, diceva mio nonno, non è alla tua portata) cosa si mette nella valigia di emergenza sempre pronta vicino alla porta se devi scappare (tecnica cipolla! E ricordati: il caldo non è mai un problema, e serve più sapone che mutande), e a scegliere fra le tue cose quelle che vuoi assolutamente salvare dal crollo (e che stanno nella valigia, o nascoste in giardino… solo questa selezione ha impegnato per settimane noi bambini). Ma soprattutto i miei nonni non avevano paura, né del terremoto, né di perdere qualcosa, né che la loro vita potesse cambiare: avevano già vissuto il tutto e ce lo raccontavano. Sono cose che capitano ai vivi. E loro erano la testimonianza vivente, che si vive; e che la normalità, l’abitudine è quella che costruisci ogni giorno.
Credo che il teatro, le storie, la Storia, nel loro essere e tessere la comunità, siano un buon KIT per affrontare le cose che capitano ai vivi.
Credo che dovremmo impegnarci in questa direzione come artisti, programmatori, educatori, adulti.
Forza, spremiamo le meningi! E facciamo questa differenza.
La differenza. L’arte è questo. Nient’altro. La differenza nel guardare le cose da un altro punto di vista, con le infinite possibilità dell’immaginazione (cit. Anna dai capelli rossi!).
S.C.